Oreste Bazzichi: Verso l’economia di pace

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Martedì, 03 Giugno 2014 08:56

Lamezia Terme – Proseguendo la riflessione sull’economia di pace, aperta all’inizio dell’anno da Nelida Ancora, Presidente dell’Ucid di Lamezia Terme, e, sospinto dalla recente dichiarazione di Papa Francesco che “i media favoriscono la cultura dell’incontro” – non è certo un caso che il prossimo 21 giugno sia proprio in Calabria – ritengo importante per i cristiani far sì che la parola di Dio non risulti astratta rispetto ai problemi della Calabria e, in generale, di tutto il Sud Italia, baricentro dell’ area euromediterranea. Occorre uno sforzo congiunto di tutte le forze di “buona volontà” che, partendo dai territori, sappiano coniugare i principi della dottrina sociale della Chiesa con l’economia, per immettere proprio in essa quello sguardo cristiano nelle realtà umane. Le parole sviluppo integrale dell’uomo, sussidiarietà, solidarietà, bene comune, gratuità, fraternità, non sono un’utopia – isole inesistenti e immaginarie, come sostengono Moro, Campanella e Bacone – ma realtà viventi e sociali. Il cristianesimo è un’utopia reale, che vive nella società. Nella storia della civiltà non c’è stato innovatore ideale più grande di Cristo: la sua mission è sintetizzata nel Discorso della Montagna, ritenuto il documento spirituale più rivoluzionario di tutti i tempi. Oggi nella nostra società ci sono troppi novatores, che tentano di soffocare quanto di buono, di vero, di bello e di utile è contenuto nel Vangelo per la salvezza dell’uomo e del mondo. In questo clima di smarrimento, di confusione e di profonda crisi della società, la Chiesa, con la sua opera salvatrice e la sua azione sociale – come provvidenzialmente è accaduto nel passato – deve intervenire (non può stare in disparte) per mantenere sempre viva la presenza di Dio fra gli uomini, perché la fiamma della speranza, di cui l’uomo ha estremo bisogno per migliorarsi e per sentirsi veramente libero, rimanga accesa. Per alimentare questa fiamma è necessario l’ intervento della Chiesa, con tutti i mezzi a sua disposizione, per correggere deviazioni e storture, illuminare le menti, cooperando alla costruzione di una società nuova. Un intervento volto ad offrire direttive generali sul piano sociale, invitando a tenere sempre presente il programma cristiano di amore, di carità, di giustizia, di pace, di solidarietà e di fraternità, perché tutti figli dello stesso ed unico Padre, senza  immischiarsi direttamente in lotte politiche e di classe.

In questo senso la presenza della Chiesa nella società non costituisce un’ingerenza nella vita delle nazioni o una longa manus del magistero episcopale negli affari interni degli Stati. La Chiesa non ha mai avuto paura del nuovo. S Ambrogio scriveva: “Nova semper quaerere et parta custodire” (bisogna cercare sempre cose nuove e custodire quelle trovate). E’ chiaro che S. Ambrogio non invita ad accettare tutto ciò che è nuovo per il solo motivo che è nuovo; il nuovo deve essere anche valido. Infatti il Vangelo è sempre “nuovo”, perché è sempre valido. Ecco perché la situazione di oggi deve essere guardata, considerata, giudicata alla luce di questa angolatura. La dottrina sociale della Chiesa è viva e non ha paura del nuovo, a cominciare dalla sua prima enciclica sociale Rerum novarum (1891). Essa, con senso storico e saggio discernimento è proiettata verso il futuro: guarda al nuovo, ai “segni dei tempi” con ampia apertura mentale, ma radicata nel passato per tutto ciò che costituiscono i principi permanenti derivanti dal depositum fidei (dignità della persona umana, sussidiarietà, solidarietà, giustizia sociale e bene comune). In questo senso l’enciclica Caritas in veritate (2009) può parlare di economia al servizio della fraternità. Per San Francesco e per la Scuola francescana, infatti, la relazione fraterna supera i due valori economici classici: quello d’uso e quello di scambio, costruendo la condizione affinché l’uomo possa svilupparsi. Il considerare il valore relazionale dei beni porta anche ad una nuova concezione del potere, ad un uso non proprietario del potere, e dunque come servizio, capace di operare per il bene comune. Parlare di “farsi prossimo” (parabola del Samaritano) significa ragionare su quale uso facciamo dei beni per metterci in relazione con gli altri. I beni non vanno accumulati (economia finanziaria), ma vanno usati (economia reale) per mettersi in relazione con gli altri (economia di pace). Certo, resta da capire quali strade originali percorrere. Il Premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, in linea con il pensiero francescano, parla, ormai da anni, di “sviluppo umano”, che non è solo economico.

Il programma del modello culturale e sociale del buon Samaritano,  ripreso in più occasioni anche da Papa Francesco, offre un programma immediato, di risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità impellente: “gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati”, ecc.(n. 31a), ma poi occorre un programma che preveda “l’umanizzazione del mondo”, facendo “il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è un cuore che vede”, che osserva ed agisce. Bisogna avere compassione, cioè assumersi la responsabilità degli altri, avvicinandosi e non scappando, come fa la nostra società davanti a chi soffre, a chi è debole. La parola compassione (dal greco sunpatheia, con affetto, con amore) è un tratto fondamentale di Gesù nei Vangeli. E’ il contrario dell’indifferenza, della fretta, del non aver mai tempo per fermarsi ed ascoltare gli altri. Certo anche il Samaritano non poté fare tutto da solo. Anche lui aveva i suoi impegni, ma si prese cura del malcapitato, portandolo in un albergo, pagando per il suo ristabilimento e promettendo che sarebbe tornato a vederlo.

Cosa fare? Cosa insegna la storia? Non rifugiarsi nel populismo – che purtroppo avanza – ma ripartire dal territorio, dove diventa possibile ricostruire una rappresentanza di scopo. Il fatto è che occorre creare gruppi sociali che, ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa, abbiano l’obiettivo di cambiare le condizioni di esistenza delle società; essi rispondono ad un bisogno, inscritto nella natura umana, di costruire la pace mediante la giustizia, la sussidiarietà e la solidarietà, poiché, come dice san Tommaso commentando sant’Agostino, “una concordia ordinata” tra due uomini fa sì che “l’uno concordi con l’altro su cose che convengono a entrambi” (cfr. Summa theologica, II-II, q.29, a.1; Civitas Dei, lib. XIX, cap. XIII, Rusconi, Milano 1984, p. 964). L’Italia come Paese moderno, come Paese industriale, come Paese manifatturiero, come Paese ricco, nasce, nel dopoguerra, sul territorio, non dalla Cassa Depositi e Prestiti o dalla Consob; da un capitalismo familiare, non di tipo anglosassone né  di tipo renano o europeo; un capitalismo umano, che parte dal basso, dal territorio e non dalla dimensione verticale. Lo stesso De Gasperi, di fronte alla ricostruzione postbellica del Paese, disse: “Cittadini, ricostruite voi, non lo Stato”. Forse questo è il tempo storico in cui un popolo, quello calabrese, possa vivere la prossima visita di Papa Francesco come occasione provvidenziale per riscoprirsi “cittadini”.

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